Estate in campagna di Marina Pace

“Questa volta ho affidato alla penna e non alle matite e ai colori, il compito di descrivere le mie estati più belle e spensierate.”
Inizia così l’email che ci ha inviato la nostra cara amica Marina Pace. 
A seguire il suo racconto di villeggiatura. Buona lettura!
 
Estate in campagna, per me, significa Pedara. Anzi, per essere più precisa, una piccola casa in una contrada a nord del paese.
I miei bisnonni furono tra i primi temerari a colonizzare quella landa, un tempo brulla distesa di lava.
Memori delle loro estati nelle campagne di Grammichele e Caltagirone, fecero costruire una casetta molto piccola, ma con un grande terrazzo, che in estate ospitava parenti vicini e lontani, allietati con chiacchiere, improvvisati concerti di violoncello o fisarmonica e pranzi e cene memorabili, preparati con amore dalla mia infaticabile nonna Pina.
 
Il terrazzo si affacciava su aiuole ben curate, con tanti rampicanti, rose e siepi di pitosforo.
Su un lato della casa, invece, i miei nonni avevano creato un piccolo vigneto, con fichi d’india e qualche albero da frutto.
Alle spalle, oltre un grande cortile, c’era un altro fazzolettino di terra, adibito a piccolo orto, presidiato da un fico, nel tempo divenuto enorme e “massaro”.
Per me, timida e solitaria bambina di città, la villeggiatura con i bisnonni, i nonni e l’inseparabile setter inglese Kim, era una pausa di rigenerante libertà.
Ascoltavo le loro storie e vivevo “selvaggiamente”.
Con gruppi di amichetti stagionali, andavo a scoprire i dintorni a piedi o, più temerariamente, in bicicletta.
 
A quei tempi, io sono del 1968, c’erano ancora più boschi e radure che case e Tarderia, era una meta proibitissima, ma…ambitissima da tutti noi.
Quando rimanevo a casa, leggevo o disegnavo, sempre in quel terrazzo, ascoltando rapita il rumore del vento che scendeva veloce dai fianchi dell’Etna, facendo tremolare le foglie degli alberi.
Se avevo fame, andavo nel piccolo orto, staccavo un pomodoro, lo annusavo e poi lo addentavo, senza neanche lavarlo.
Stessa sorte toccava alle piccole pere verdi con le guance rosse e ai fichi.
Con l’uva, dovevo essere più cauta, perché era presidiata dal bisnonno
Salvatore e da nonno Paolo.
Io allora succhiavo gli acini direttamente dal grappolo, per poi dare la colpa alle vespe e agli uccellini.
E c’era sempre qualche uccellino caduto prematuramente dal nido, che nonno Paolo nutriva amorevolmente con piccole mosche e bricioline di pane.
Ricordo le canne su cui stavano i fichi a seccare, quando non pioveva cenere nera dall’Etna, o i pentoloni di pomodori che cotti con sedano, carota, basilico e cipolla, venivano poi passati e insaporiti in padella con un filo d’olio, uno spicchio d’aglio e tanto basilico profumatissimo.
Questa era la “salsa dell’estate”, base sublime per paste, timballi e il “gattò” di patate, con un cuore di melanzane fritte.
 
Adesso non ci sono più né i bisnonni, né i nonni…la casa è stata venduta e i nuovi proprietari hanno distrutto con imperdonabile “furia iconoclasta” il giardino, il vigneto e l’orto.
Il mio dolore è stato così grande che ho giurato a me stessa che da quella strada non sarei più passata e così ho fatto e faccio.
E anche se da più di trent’anni in quella stessa contrada ho una casa sicuramente più bella, grande e panoramica, nel mio cuore so che, pur amandola tanto, non potrà mai competere con quella casetta, popolata da magnifiche presenze, divenute ormai da troppi anni, dolci e malinconiche assenze.
 
Photo credit: opera artistica dell’autrice del racconto dal titolo: “1935… Estate… La memoria si dipana come fili di seta”.